Memorandum

di Vaclav Havel

“Ra ko hutu d dekotu ely trebomu emusohe, vdeger yd, stro renu er gryk kendy.”

Sono queste le prime parole che il Direttore Gross legge sulla lettera comparsa sulla sua scrivania. A sua insaputa la vicedirettrice Balaš ha infatti introdotto il ptydepe, un nuovo linguaggio burocratico volto a semplificare la comunicazione di ufficio. Reso nervoso dalla possibilità che la lettera possa contenere qualche informazione compromettente, Gross cercherà di scoprirne il contenuto, finendo incastrato nel circolo vizioso della burocrazia. Continuamente rimbalzato da un dipendente all’altro nella sezione traduttori e cacciato in malo modo dall’aula in cui il ptydepe viene appreso dai dipendenti, Gross rimane quindi vittima dei giochi di potere dell’ufficio.

In un infittirsi di trame e complotti, gli ingranaggi della macchina burocratica continuano a girare formando un meccanismo inesorabile e spietato volto soltanto a mantenere lo status quo.

A chi non è mai capitato di imbattersi in una procedura come quella per la traduzione di un testo dal ptydepe? A chi non è mai capitato di imbattersi in un Gross, in un Balaš, in un Hector? Memorandum è un lucido ritratto della burocrazia e delle sue dinamiche che a distanza di cinquant’anni riesce ancora a restare attuale.

Nel portarlo in scena abbiamo quindi scelto uno spazio astratto, senza tempo e senza connotati, con una stanza appena delineata che imprigiona i personaggi in un labirinto di movimenti prefissati e ripetitivi. In questo spazio abbiamo fatto muovere dei personaggi pieni di contraddizioni, i cui vuoti sforzi non sembrano avere una motivazione chiara, univoca, o trasparente. Tutti ingranaggi dello stesso macchinario difettoso ma inesorabile, sono personaggi che vivono del processo che li logora.

E se il primo impulso è stato quello di i dare noi una risposta, abbiamo intrapreso la strada contraria, più difficile ma a nostro giudizio più forte. Abbiamo scelto di esaltare le ambiguità del testo per enfatizzarne gli elementi di nonsense che lo riconducono al filone del teatro dell'assurdo. Vogliamo rappresentare un quadro assurdo ma allo stesso tempo molto familiare: prendi un numero, siediti e aspetta.